Il grande bulgaro Moni Ovadia con ‘Cabaret Yddish’
Cabaret Yiddish di e con Moni Ovadia. Questo il singolare spettacolo in programma, per le ore 20,45 di lunedì 16 gennaio, al “Costantino Parravano” di Via Mazzini. Singolare, giacché per una sola serata e specialmente perché propone un universo culturale a noi estraneo. L’yiddish è, infatti, un dialetto parlato e scritto da stirpi d’origine ebraica ma mitteleuropee, un dialetto-miscuglio di vocaboli giudaici, slavi e neolatini saldati “dall’alto tedesco medio”. Tenendo conto che schiere di quelle stirpi, trapiantate in Germania, Bulgaria e altre nazioni dell’Est europeo emigrarono nel Nord America, è pressoché completo il quadro di riferimento antropologico-etnico espresso in yiddish. E chi se non il vulcanico attore Moni Ovadia potrebbe meglio lanciare al pubblico una migliore e fruibilissima sintesi artistica di quell’universo? Egli nacque a Plodiv, però già bambino si trasferì con la famiglia a Milano e sta vivendo una vita intera impegnata “costantemente al recupero e alla rielaborazione del patrimonio artistico, letterario, religioso e musicale degli ebrei dell'Europa orientale”. Egli -compositore, cantante e perfino danzatore - sarà accompagnato da Maurizio Deho violino), Paolo Rocca (clarinetto), Albert Florian Mihai (fisarmonica), Luca Garlaschelli (contrabbasso). Quindi pochi artisti sul palco, ma più che sufficienti a dar vita ad un godibile Cabaret Yiddish che, peraltro, vedrà attivo Mauro Pagiaro come tecnico del suono. E l’avvolgente sostanza dell’intero recital narrerà agli attoniti spettatori “la condizione universale dell’Ebreo errante, il suo essere senza patria sempre e comunque”. “Si potrebbe dire che lo spettacolo abbia la forma classica del cabaret comunemente inteso. Alterna infatti brani musicali e canti a storielle, aneddoti, citazioni che la comprovata abilità dell’intrattenitore sa rendere gustosamente vivaci”. Ma l’originalità “sta nel fatto di essere interamente dedicato a quella parte di cultura ebraica di cui lo Yiddish è la lingua e il Klezmer la musica. Uno spettacolo che “sa di steppe e di retrobotteghe, di strade e di sinagoghe”. Tutto questo è ciò che Moni Ovadia chiama “il suono dell’esilio, la musica della dispersione”: in una parola della diaspora. La musica Klezmer deriva dalle parole ebraiche Kley Zemer, che si riferiscono agli strumenti musicali (violino ed archi in genere e clarinetto) con cui si suonava la musica tradizionale degli Ebrei dell’Est europeo a partire all’incirca dal XVI secolo. «Ho scelto di dimenticare la “filologia” – spiega l’inimitabile Moni – per percorrere un’altra possibilità, proclamando che questa musica trascende le sue coordinate spazio-temporali ‘scientificamente determinate’ per parlarci delle lontananze dell’uomo, della sua anima ferita, dei suoi sentimenti assoluti, dei suoi rapporti con il mondo naturale e sociale, del suo essere ‘santo’, della sua possibilità di ergersi di fronte all’universo, debole ma sublime. Gli umili che hanno creato tutto ciò prima di poter diventare uomini liberi, sono stati depredati della loro cultura e trasformati in consumatori inebetiti, ma sono comunque riusciti a lasciarci una chance postuma, una musica che si genera laddove la distanza fra cielo e terra ha la consistenza di una sottile membrana imenea che vibrando, magari solo per il tempo di una canzonetta, suggerisce, anche se è andata male, che forse siamo stati messi qui per qualcos’altro». Una puntualizzazione, questa, che davvero infiamma e fa venir voglia di digitare il numero info del Parravano (0823.44.40.51) e chiedere se ci sono ancora biglietti disponibili.
Raffaele Raimondo
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